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di Alice Alessandri e Alberto Aleo
Uno degli errori più comuni che le persone fanno parlando di etica in azienda è confonderla con la morale. Etica e morale in filosofia sono due concetti separati, se pur complementari. La stessa cosa vale all’interno della business ethics, quella disciplina economica di cui ci occupiamo da quasi quindici anni e che, a dispetto del nome, si occupa di entrambe ma in momenti e modi diversi. Fare confusione tra i due termini può compromettere il modello strategico di un’azienda che abbia deciso di adottare un approccio virtuoso al mercato, ecco perché in questo articolo vi chiariremo le differenze tra etica e morale aziendale.
Le radici filosofiche della business ethics
Morale e etica sono due rami della filosofia, la prima dedicata allo studio di cosa è giusto o sbagliato, l’altra a identificare i comportamenti più coerenti alla morale che si è deciso di adottare. La grande differenza tra etica e morale sta tutta qui:
la morale cerca una risposta alla domanda “cosa è bene?”, l’altra ha un approccio più pragmatico e si occupa di come agire in accordo con ciò che è bene.
Potremmo dire che la ricerca effettuata dalla morale sia propedeutica a quella dell’etica; le aziende dunque, per essere davvero etiche, dovrebbero prima di tutto occuparsi di capire cosa è giusto fare o non fare in un’attività di mercato. Ma chi deve definire lo standard morale da adottare? Mettiamo ad esempio che nel concetto di “bene” aziendale ci sia accumulare denaro a qualsiasi costo, sarebbe etico perseguire questo risultato? In linea del tutto teorica si, ma ci sono delle considerazioni da fare.
La morale in azienda
Innanzitutto dobbiamo distinguere un obiettivo economico da un precetto morale. Il denaro è uno strumento, il bene invece non è, o non dovrebbe essere, strumentale. La nostra ricerca morale non dovrebbe quindi accontentarsi di individuare obiettivi individualistici ma valori e principi in grado di dare senso alle nostre vite e a quelle degli altri, anche quando a definirli è un’organizzazione commerciale, pena la perdita della capacità di ispirare e motivare. Una buona domanda da porsi in tal senso è “cosa se ne farà la nostra organizzazione di quanto guadagnato una volta raggiunta la prosperità?”.
L’altro aspetto da tener presente è che, qualunque sia la vostra morale, dovrete rispettare quanto affermato nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani redatta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che sancisce una sorta di limite oltre il quale non è possibile andare se si vuole rimanere all’interno del patto di convivenza tra esseri umani. Certo potremmo delegare ad un ente terzo la definizione di una morale universale adottata da tutti che sancisca cosa è giusto o sbagliato fare. Le regole civili e le religioni giocano in questo senso un ruolo fondamentale, ma attenzione ad imporre la morale in modo rigido perché ciò ha come deriva la perdita della libertà ad autodeterminarsi come accade nelle peggiori dittature.
A cosa serve e come si insegna la business ethics
Torniamo a parlare più specificatamente di business ethics cercando di capire a cosa serve e come può essere insegnata. Quando il prof. Mike Hoffman fondò nel 1976 alla Bentley University il Center for Business Ethics il suo obiettivo era fornire, per la prima volta in una facoltà di economia, ai nuovi imprenditori e manager strumenti che permettessero loro di capire cosa è giusto o sbagliato fare nelle diverse situazioni di mercato. L’offerta di studi filosofici consentiva di confrontarsi con il pensiero di Aristotele, Socrate, Kant, Nietzsche, Confucio, Smith, Marx e tanti altri così da stimolare lo sviluppo di una propria morale economica. L’idea entusiasmante si scontrò con una constatazione semplice quanto devastante: farsi un’idea su ciò che è giusto non comporta automaticamente che le persone poi agiscano in quella direzione soprattutto quando ci sono di mezzo concetti come efficenza e soldi.
La professoressa Mary Gentile durante i suoi anni di ricerca ed insegnamento ad Harvard si accorse di un fenomeno alquanto inquietante: le persone che avevano partecipato ai corsi di business ethics, non solo li trovavano poco pratici ma addirittura risultavano poi essere tra i più inclini a perseguire comportamenti scorretti. Parafrasando un noto detto potremmo dire che l’approccio ai corsi di business ethics per molti studenti era “impara la morale e mettila da parte”.
È stato proprio interrogandosi sulle ragioni di questo fenomeno che Mary Gentile ha creato il suo metodo Giving Voice to Value che si occupa non soltanto di far scoprire alle persone i propri valori, aiutandole a decidere cosa è giusto o sbagliato fare, ma anche e sopratutto di scegliere comportamenti coerenti e, nell’ambito lavorativo funzionali al business. “Le persone non scelgono di comportarsi male perché non sanno cosa sia corretto, ma perché pensano che la prima scelta le possa portare più velocemente al risultato” ripete Mary nelle sue aule.
Darsi dei principi morali quindi non basta, ci vuole anche un’indagine sui comportamenti che possono agire questi principi senza creare turbolenze o inefficienze.
Il ruolo centrale dei propri valori quando si vuole essere etici
Le aziende definiscono la loro morale attraverso l’individuazione dei propri valori e agiscono eticamente quando scelgono comportamenti ad essi allineati.
Perché un valore sia applicabile deve però essere prima di tutto profondamente sentito da chi lo dichiara, solo così potrà ispirare azioni coerenti.
Nella realtà le carte dei valori della maggior parte delle aziende si presentano sotto forma di elenchi di concetti condivisibili ma generici come “rispetto per l’ambiente”, “centralità della persona”, “trasparenza dei processi”, …
Probabilmente queste liste sono state redatte da qualcuno (un manager, un’agenzia specializzata, …) e poi calate all’interno dell’organizzazione sperando che le persone le adottassero. Per essere veramente efficace il lavoro sui valori deve essere corale e prodotto dentro l’azienda. Adottare questa prospettiva inside-out rende più complesso il processo ma esistono metodi che possono aiutare. Uno dei più efficaci a nostro avviso è quello indicato dal professore Leigh Haffrey della Sloan Business School del MIT con il quale abbiamo avuto il piacere di confrontarci spesso.
Le storie al centro della business ethics
Il prof. Hafrey afferma che per identificare i valori di una persona bisogna prestare attenzione alle storie che racconta. Ciascuno di noi è bombardato ogni giorno da stimoli narrativi; che sia l’aneddoto di un’amica, il reel sul social, la telefonata con un parente che ci aggiorna sulla famiglia o la serie tv preferita del momento, ci nutriamo continuamente di racconti e lo facciamo sin da quando siamo stati in grado di comprendere il linguaggio. Alcuni di questi ci hanno colpito particolarmente e ci hanno formato con la morale in essi contenuta.
Le storie che ci sono rimaste dentro e che condividiamo con gli altri, incapsulano non solo i nostri valori ma anche il modo di applicarli.
Le aziende sono piene di aneddoti e racconti su come sono stati gestiti progetti, clienti, sfide. Queste narrazioni testimoniano l’applicazione concreta di valori, esse vanno quindi raccolte e decodificate per capire in cosa crede davvero quell’organizzazione. È da tali storie che nascerà la vostra carta dei valori. Quando l’avrete estrapolata e codificata non resterà che da chiedervi come generare nuovi racconti, come applicare cioè quei valori ad altri clienti, ad altri progetti e ad altre nuove sfide. In questo processo salderete valori e comportamenti, principi e prassi, morale ed etica superando i limiti e le differenze tra queste due discipline.
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