di Alberto Aleo
Chi si occupa di business ethics (che integra economia ed etica) ha spesso la tendenza a contrapporne i principi a quelli dell’economia classica. Sembra infatti che il pensiero dei padri fondatori del capitalismo e degli economisti che nel tempo ne sono stati promotori, sia fondato su uno spietato individualismo. Siamo però davvero sicuri che la disciplina economica abbia intriso nel suo stesso DNA questo “peccato capitale” che la condanna inesorabilmente ad essere poco etica? Per rispondere dovremo compiere insieme un breve viaggio a ritroso nel tempo, ripercorrendo alcune tappe del rapporto tra economia ed etica.
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Gli albori del pensiero economico
Ci sono diverse teorie sulla nascita del pensiero economico, è noto però che le prime tracce di contabilità e governo dei conti possono essere individuate nell’organizzazione dei monasteri. Se l’economia è nata dentro mura consacrate allora vuol dire che il suo rapporto con l’etica e la morale non deve essere stato poi così distante. I benedettini, infatti, nella loro regola dichiarano che per il giusto sviluppo dell’uomo sono necessarie preghiera, studio e lavoro. Le loro comunità dovevano essere autosufficienti attraverso la produzione, sia perché creando risorse avrebbero potuto trasferire prosperità ai più bisognosi senza invece drenarla, sia forse perché autosufficienza è sinonimo di indipendenza e libertà di credo. Fin dall’inizio i concetti di libertà, economia ed etica si sono intrecciati… e hanno continuato a farlo con esiti a volte controversi.
Smith e la scuola liberale scozzese
Parlando di libertà, economia ed etica è indispensabile citare la scuola scozzese. Con l’affermarsi della produzione industriale e la nascita della borghesia, il potere dei singoli individui e la loro capacità di auto-determinarsi emersero prepotentemente. Ciò portò gli economisti/filosofi Smith e Hume a confutare l’idea che dovesse essere un “ordine superiore” a regolamentare gli scambi, perché tale condizione avrebbe posto limiti alla libertà dei singoli rallentando lo sviluppo delle società.
A chi contestava che senza un sistema regolatore centrale i mercati avrebbero iniziato ad assomigliare ad una giungla dove – in nome dell’interesse individuale – si sarebbero compiute le azioni più turpi, Smith e Hume opponevano l’idea che fosse proprio nell’interesse dei singoli cooperare e adattarsi. Questo per due fondamentali ragioni:
- la prima è che essendo le nostre competenze e capacità come individui limitate abbiamo bisogno di qualcun altro per rispondere alle necessità cui non potremmo far fronte da soli
- la seconda perché l’interesse, ciò che consideriamo utile e di valore, non fa solo riferimento a esigenze materiali, ma anche a bisogni psicologici come quelli di socializzazione e stima; bisogni che trovano soddisfazione solo coltivando buoni rapporti.
La scuola scozzese quindi promuove l’idea rivoluzionaria che le regole morali non possono essere prodotto di teorie o poteri esterni, ma di fenomeni interni alle relazioni e ai processi di cooperazione e adattamento reciproci.
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Aziende contro società
La visione liberale del mercato e degli scambi si afferma quindi nei paesi occidentali e, alla lunga, si rivela essere il sistema più efficiente per assicurare a grandi masse prosperità e crescita costanti, vincendo la “concorrenza” di altri modelli alternativi come quello comunista. L’idea che qualcuno si arricchisca più degli altri, giustificata dai capitalisti con il concetto di meritocrazia, non piace però a tutti. Sopratutto non piacciono lo strapotere delle aziende e la loro capacità di influenzare la nostra vita al solo scopo di generare profitti.
Affermazioni come quella di Friedman “Gli affari hanno una e sola responsabilità sociale, quella di aumentare i profitti” sembrano poi escludere ogni implicazione morale nello svolgimento delle attività economiche. In vero, come era già capitato circa 200 anni prima a Smith e Hume, ci piace pensare che anche Friedman (pure lui liberale oltretutto) nella sua rivendicazione del diritto a perseguire interessi individuali sia stato frainteso. Ciò che l’economista voleva a nostro avviso affermare è l’idea che ognuno deve specializzarsi e “fare al meglio ciò che sa fare meglio”, per contribuire allo sviluppo organico delle società. In questo senso le aziende devono occuparsi di fare profitti perché sono specializzate in quel particolare tipo di competenza.
Friedman, come Smith, è un sostenitore dell’interesse a medio-lungo termine, per lui quindi è pacifico che le aziende debbano curare – nel loro stesso interesse e per fare profitti duraturi nel tempo – la cooperazione con ogni attore del mercato e la società tutta. In questo senso la contrapposizione tra le idee di Friedman e quelle di Freeman, padre della teoria degli stakeholder secondo la quale le aziende prima del profitto devono occuparsi di creare valore per il maggior numero di portatori di interesse, a nostro avviso non è così netta.
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Libertà, economia ed etica
A questo punto a qualcuno sarà venuto il sospetto che stiamo difendendo il capitalismo classico e il suo primato dell’interesse individuale, visto come contrapposto al benessere delle comunità. È proprio questo il nocciolo della questione:
dal nostro punto di vista non ci dovrebbe essere contrapposizione tra il mio interesse e l’interesse della società in cui vivo.
Partire dal presupposto che per vivere in una società più etica si debba sacrificare l’interesse del singolo è molto pericoloso e storicamente ha portato alla nascita di dittature e regimi del terrore: poteri forti che decidevano “dall’alto” come fosse giusto agire per perseguire il bene e quale fosse la natura stessa di questo bene.
L’idea invece che vogliamo contribuire ad affermare, e prima di noi una lunga schiera di economisti e pensatori, è quella che gli esseri umani vadano messi nella condizione di scegliere di operare pienamente per il loro bene, fornendogli strumenti di “convenienza” personale che convengano anche alla società. Per farlo è necessario aiutarli a guardare in modo allargato al loro stesso interesse sia in termini di contenuti che temporali, risolvendo cioè alcuni bias cognitivi e asimmetrie informative che li porterebbero a scegliere nel breve e in modo miope soluzioni solo apparentemente e solo temporaneamente soddisfacenti.
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Secondo la corrente di business ethics cui ci sentiamo di appartenere, la libertà di perseguire i propri interessi, le proprie aspirazioni e l’etica non solo sono conciliabili ma sono necessarie l’una all’altra.
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La nostra missione come Passodue e quella del programma di ricerca GVV di cui siamo parte, è proprio rendere evidente questa compatibilità fornendo strumenti a professionisti e aziende affinché l’etica diventi efficace e conveniente.
Se così non fosse infatti accadrebbero due cose: i nostri interessi e quelli della società entrerebbero in conflitto e qualcuno, ad un certo punto, ci imporrebbe le sue regole morali; oppure l’etica diventerebbe un lusso per quei pochi che possono permettersi di dimenticare i propri interessi, perché li hanno già soddisfatti magari in modo poco etico.
La business ethics quindi non deve proporsi come alternativa ai modelli classici ma come lo strumento per rilanciare e riscoprire il rapporto tra economia ed etica.
NB Le interpretazioni che abbiamo dato del pensiero degli economisti citati nell’articolo sono personali e volutamente semplificate a scopi divulgativi.
| partem claram semper aspice |
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