di Alberto Aleo
Uno dei primi ricordi di cui io abbia memoria è l’acquisto di un orsacchiotto. Avrò avuto 5 anni, non so, ma ricordo benissimo un banco enorme (almeno per me) pieno di teddy bear bianchi tra i quali ne spiccava uno arancione. Su come si svolsero i fatti sono un po’ confuso, comunque tornai a casa proprio con quello. Per averlo lottai con mia madre che continuava a ripetermi “ma che te ne fai di un orsacchiotto arancione: in natura non esistono orsi arancioni. Non vedi che tutti gli altri bimbi lo scelgono bianco?”. Credo che quello sia stato un imprinting perché da allora in poi ho iniziato a scegliere ciò che “non esiste” evitando quello che “tutti gli altri bambini” compravano.
Nel corso degli anni ho accumulato vestiti improbabili, orologi che non dicevano l’ora, moto prodotte in paesi sconosciuti e molte altre cianfrusaglie di cui poi mi sono inevitabilmente pentito.
Non bisogna essere psicologi per capire come questo modo di comportarsi fosse legato alla voglia di affermare la mia personalità e “diversità” rispetto alla massa, una battaglia che accomuna molti e di solito ci accompagna fino alla tarda adolescenza (anche oltre in alcuni casi). Se questa “strategia” di vita è nota, accettata e per certi versi metabolizzata dalla nostra società, bisogna anche dire che è faticosissima e in molti casi assolutamente sterile: quando compri un orologio che non dice l’ora o una moto che dovrai sperare di non dover mai riparare poiché non esistono ricambi, più che per “figo” passi per “sfigato”.
Ma allora perché inevitabilmente e puntualmente ancora adesso, quando arriva il momento di scegliere, sento una forza che mi spinge verso qualcosa di inaspettato, non convenzionale, inusitato e mediamente rischioso? Cosa succede nella mia testa? Stamattina ho ricevuto la risposta ed è condensabile in una parola, un sostantivo che da solo è in grado di aprire immensi scenari all’immaginazione, canyon di significati, tracciare sentieri lungo i quali donne e uomini ben più dotati di me hanno intrapreso cammini dai quali non sono mai più tornati. Questa parola è AVVENTURA.
Io soffro di una delle più insidiose malattie dell’uomo post-moderno: la sindrome di Indiana Jones che si scatena proprio quando la nostra voglia di esplorare, conoscere, innovare e cambiare rimane per troppo tempo inascoltata.
Come molti virus latenti, la “sindrome dell’esploratore” è presente dentro ognuno di noi: anche il ragioniere dell’ufficio contabilità della ditta Tristi&Noiosi almeno una volta la sperimenterà. Certo l’intensità dei suoi effetti potrà variare e dipenderà da una serie di circostanze, ma indubbiamente se cercate dentro di voi ne troverete già le tracce. “Cercare dentro di noi”, ecco ciò che questa sindrome sociale ci chiede di fare: la vera dimensione di scoperta che può lenirne gli effetti è infatti esclusivamente interiore. Non basterà quindi cambiare fidanzata, lavoro, città, nazione o continente: se siete infettati dal virus, rimarrete inappagati ovunque e con chiunque voi siate, perché ciò che inseguite sta in un altro posto, dovrete andare più a fondo e non in orizzontale ma in verticale!
In un mondo che è tutto già stato esplorato solo la nostra mente e la nostra anima possono nascondere nuove frontiere mai varcate.
Ma cosa c’entrano l’orsacchiotto e gli altri oggetti? Perché comprare cose strane e inutili o (come capita a qualcuno) frequentare persone improbabili? Perché le persone come gli oggetti sono dei potenti strumenti per viaggiare dentro di noi: ci trasportano in un’altra realtà, traghettano la nostra vita in un luogo nuovo e inaspettato, permettendoci di trovare una risposta alla domanda che come piccoli Indiana Jones continuamente rivolgiamo a noi stessi “Chissà come sarebbe se…?”.
Con la mia strana moto dunque ho viaggiato per strade che non esistono, con la macchina fotografica che non faceva foto ho immortalato cose che non ho mai visto e guardando il quadrante di un orologio senza quadrante ho sperimentato una nuova dimensione del tempo. Questi oggetti – ognuno nel suo strano modo – hanno quindi “curato” la mia voglia di avventura permettendo alla mia mente e alla mia anima di espandersi.
Da “malato” a “malato” consiglio quindi a tutti di lasciare sempre un po’ di spazio all’esploratore che c’è in voi, cercando se è possibile di inserire lo spirito di avventura in ogni cosa che fate, progettate o vendete.
Non resta che augurarvi buon viaggio!
PS Le moto, gli orologi e gli altri oggetti “inutili” sono piano piano scomparsi dalla mia vita, venduti, regalati o comunque sostituiti da qualcosa di più pratico. L’orsacchiotto arancione però è ancora lì sul comò. Dall’alto dei suoi quasi quarant’anni e nonostante qualche inevitabile segno del tempo mi ricorda ciò che è e quello che sempre sarà.
| partem claram semper aspice |
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L’ha ribloggato su slidebananaskine ha commentato:
Il mio primo articolo lo rubo volentieri…
Grazie Alberto Aleo
Oggi pomeriggio raccontavo ad un caro amico dei mie allenamento per migliorare la mia “resilienza psicologica”.
Spiegavo come la mia “sindrome di ricercatore” spesso si sia trasformata in fuga dalle imprese che richiedevano troppo sacrificio.
Nel corso degli anni ci ho lavorato.
Ho migliorato la mia resilienza grazie anche al sostegno della mia compagna di vita.
Vorrei ancora migliorare senza mai rinunciare alla passione bruciante per la ricerca (orizzontale e verticale)
Allora lui mi ha girato questa bella frase di Musil che non ricordavo e che condivido:
“Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è. (pp. 12-13)” Robert Musil, L’uomo senza qualità.
Grazie Alberto per la tua bellissima storia e… complimenti al vostro “Passodue”.
Alessandro
Grazie a te Alessandro il tuo commento vale il post